Nella giornata della Caritas e della giornata mondiale dei poveri vi lascio alcune parti di un discorso fatto da Papa Francesco al convegno di Caritas Internazionalis.
Un saluto, don Cesare
È la carità che ci fa essere. Quando accogliamo l’amore di Dio e amiamo in Lui, attingiamo alla verità di ciò che siamo, come individui e come Chiesa, e comprendiamo a fondo il senso della nostra esistenza. Non soltanto capiamo l’importanza della nostra vita, ma anche quanto sia preziosa quella degli altri.
Distinguiamo chiaramente come ogni vita sia irrinunciabile e appaia come un prodigio agli occhi di Dio. L’amore ci fa aprire gli occhi, allargare lo sguardo, ci permette di riconoscere nell’estraneo che incrociamo sul nostro cammino il volto di un fratello, con un nome, una storia, un dramma a cui non possiamo rimanere indifferenti.
Alla luce dell’amore di Dio, la fisionomia dell’altro emerge dall’ombra, esce dall’insignificanza, e acquista valore, rilevanza. Le indigenze del prossimo ci interrogano, ci scomodano, ci provocano alla sfida della responsabilità. Ed è sempre alla luce dell’amore che troviamo la forza e il coraggio di rispondere al male che opprime l’altro, di rispondere in prima persona, mettendoci la faccia, il cuore, rimboccandoci le maniche.
L’amore di Dio ci fa avvertire il peso dell’umanità dell’altro come «un giogo soave e un carico leggero» (Mt 11,30). Ci induce a sentire come nostre le ferite che scorgiamo sul suo corpo e ci sollecita a versare l’olio della fraternità sulle piaghe invisibili che leggiamo nella filigrana dell’altrui animo.
Vuoi sapere se un cristiano vive la carità? Allora guarda se è disposto ad aiutare di buon grado, con il sorriso sulle labbra, senza brontolare e adirarsi. La carità è paziente, scrive Paolo, e la pazienza è la capacità di sostenere le prove inaspettate, le fatiche quotidiane, senza perdere la gioia e la fiducia in Dio. Per questo è il risultato di un lento travaglio dello spirito, in cui si impara a dominare se stessi, prendendo coscienza del propri limiti. È un modo di rapportarsi a se stessi da cui, poi, scaturisce quella maturità relazionale che ci porta a riconoscere «che anche l’altro possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com’è».
Uscire dall’autoreferenzialità, dal considerare ciò che vogliamo per noi come il centro attorno cui far ruotare ogni cosa, a costo di piegare gli altri ai nostri desideri, non soltanto ci chiede di contenere la tirannia dell’egocentrismo, ma domanda anche l’attitudine dinamica e creativa a lasciare emergere le qualità e i carismi degli altri… Il cristiano che vive immerso nell’amore di Dio non alimenta l’invidia, perché «nell’amore non c’è posto per il provare dispiacere a causa del bene dell’altro» (AL 95). Non si vanta e non si gonfia, perché ha il senso della misura, e non gode nel porsi al di sopra del prossimo, ma anzi accosta l’altro con rispetto e con garbo, con gentilezza e tenerezza, tenendo conto delle sue fragilità. Coltiva in sé l’umiltà, «perché per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio» (AL 98). Non cerca il proprio interesse, ma si impegna a promuovere il bene dell’altro e a sostenerlo nello sforzo di conseguirlo.
L’amore tutto copre, dice Paolo, non perché sia nascosta la verità, di cui anzi il cristiano si rallegra sempre, ma perché il peccato sia distinto dal peccatore, in modo che l’uno venga condannato e l’altro sia salvato. L’amore tutto scusa, perché tutti possiamo trovare conforto nell’abbraccio misericordioso del Padre ed essere ammantati dal suo perdono.
Paolo conclude il suo “elogio alla carità” affermando che quest’ultima, in quanto via eccellente per giungere a Dio, è più grande della fede e della speranza. Quanto dice l’Apostolo è estremamente vero. Mentre la fede e la speranza sono “doni provvisori”, cioè legati alla nostra condizione viatica, di pellegrini su questa terra, la carità invece è un “dono definitivo”, un pegno e un’anticipazione del tempo ultimo, del Regno di Dio. Ecco perché tutto il resto passerà, ma la carità non avrà mai fine. Il bene che si opera in nome di Dio è la parte buona di noi che non verrà cancellata, che non andrà perduta. Il giudizio di Dio sulla storia si compie sull’oggi dell’amore, sul discernimento di ciò che abbiamo fatto per gli altri in suo nome.

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